QUARTO ITINERARIO

IL CELIO, LE CATACOMBE E LA VIA APPIA


A. URBANI DEL FABBRETTO - La Via Appia

Entriamo in una di queste catacombe, nella prima che troveremo sul nostro percorso, quella di San Callisto, dal nome di Callisto, arcidiacono della Chiesa Romana, preposto dal Pontefice Zeffirino, al principio del III secolo, all'amministrazione del cimitero, e successivamente diventato Papa lui stesso, una delle catacombe più importanti di Roma e ancora oggi, in parte, inesplorata.
La vasta area, circondata da un semplice muro, che è alla nostra destra, comprende solo una piccola parte della zona che la pietà dei fedeli aveva assicurato ai suoi defunti, perché la legge romana, che vietava il pubblico esercizio del culto della nuova setta, non impediva ai Cristiani di seppellire i loro morti, purché in terreno di loro proprietà; e perciò i primi Cristiani si costituivano in società, come ancor'oggi, in alcune città, in confraternite, e si quotizzavano per l'acquisto di aree fuori delle mura della città. Ma ben presto ai terreni così acquistati altri di maggiore importanza se ne aggiunsero, spontaneamente offerti da ricchi patrizi convertiti alla nuova fede; sicché nel IV secolo, quando, in seguito all'emanazione dell'editto di Costantino, cessò l'uso di seppellire i Cristiani nelle catacombe, esse avevano assunto uno sviluppo considerevole, comprendendo cunicoli sovrapposti che, con le loro ramificazioni, raggiungevano, complessivamente, l'estensione di parecchie centinaia di chilometri.
Pochi scalini separano la Via Appia Antica dalla zona delle Catacombe di San Callisto, ma cosi alta e solenne è la pace che vi regna, che quasi ci sembra d'essere ascesi al Cielo. L'ingresso alle catacombe è al di là di un suggestivo Viale di cipressi, che ha per sfondi la tomba di Cecilia Metella e la cupola di San Pietro in Vaticano, accanto a una basilichetta triabsidata, la cella trichora di San Sisto e di Santa Cecilia, in cui giacciono i resti del Papa Zeffirino e dell'angelico Tarcisio.
Discendiamo una ripida scaletta, ed ecco davanti ai nostri occhi, ancora abbaiati dalla luce del giorno, il Cristianesimo dei primi secoli, nutrito di fede ardente, di sangue innocente e d'infinito amore. Ecco le gallerie profonde, qualche volta così strette da consentire il passaggio appena a una sola persona, gallerie scavate nel tufo da pie mani ignare che un giorno i loro colpi di piccone avrebbero abbattuto la stessa invincibile potenza romana e avrebbero sovvertito il mondo.
Ecco i loculi in cui riposarono finalmente in pace migliaia e migliaia di creature, che avevano consacrata tutta la vita al loro Dio, o piccoli esseri che all'alba della loro vita conobbero gli orrori della persecuzione e del martirio. Ecco l'altare dove su una rozza pietra vennero celebrati i primi sacrifici eucaristici, dove il sacerdote spezzava il pane divino con mani tremanti, mentre i fedeli bagnavano la terra delle loro lagrime. Saranno queste lagrime che feconderanno, col sangue dei Martiri, il seme divino sparso in queste zolle e che sboccerà nel trionfo della nuova fede e in una novella aurora. Ecco i simboli ingenui della nuova religione, che compendiano il credo dei primi cristiani: il pesce simbolo di Gesù; la colomba, simbolo dell'anima che aspira al cielo; la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco, rappresentanti il principio e la fine; la pecora, simbolo della pietà e dell'innocenza; l'ancora, rappresentante la salvezza; il vaso colmo di latte, l'Eucaristia; la tenda, il Paradiso; la fenice, l'eternità; Giona inghiottito e rigettato dalla balena, immagine della morte e della resurrezione: figure rozze e primitive, qualche volta appena abbozzate, o semplici segni tracciati da mani inesperte. Eppure sono questi simboli la prima manifestazione di quell'arte cristiana, che secoli dopo riempirà della sua fama l'intero universo. Ecco di tanto in tanto, lungo le pareti, nei profondi cunicoli, una piccola lucerna in una cavità scavata nel tufo, per rischiarare con la sua tremula luce la lugubre scena. Ma la pallida luce di questa umile lucerna d'argilla si tramuterà in una luce sfolgorante il cui splendore abbaglierà il mondo!
Un prete ci accompagna con una candela attraverso infiniti meandri, illustrandoci simboli e iscrizioni; ma noi siamo troppo assorti nei nostri pensieri per ascoltarlo. Non di meno, indugiamo con lui nella cripta dei Papi, debolmente rischiarata da una luce che viene dall'alto, e ascoltiamo il lungo elenco dei Papi sepolti in questa umile cappella quasi tutti caduti vittime dell'inflessibile legge romana, che vietava qualunque manifestazione di culto della nuova religione.
Ma nulla ci commuove più profondamente della lapide posta dietro l'altare, che ricorda l'atto di così profonda umiltà del Papa Damaso I, morto nell'anno 384, che chiese di essere seppellito presso la sua famiglia, anziché in questo sacro luogo, "per non profanare con la sua presenza le ceneri di tanti Martiri e di tanti Santi". E una commozione non meno dolce proviamo in una cappella vicina, davanti a un loculo in cui giace riversa, scolpita nel marmo, come un candido giglio, Santa Cecilia, col capo reciso e le piccole dita ancora indicanti il mistero della Santissima Trinità, così come fu rinvenuta nello stesso loculo da Papa Pasquale I nell'anno 817.
All'uscita dalle Catacombe di San Callisto, una leggera brezza agita le cime dei cipressi, che tracciano come una croce gigantesca sulla terra ondeggiante di spighe; e lo stormire delle foglie è simile al mormorìo di una folla annidata in una invisibile foresta e al sussurrio di anime vaganti. E in questo momento, quasi ci sembra che questi alti cipressi agitati dal vento, più che le tombe violate e profanate, ci parlino dei primi Cristiani e degli albori della nostra religione; e quasi ci sembra di udire nello stormire delle foglie e nell'ondeggiare delle spighe, sbocciate in questa terra fecondata dal sangue dei Martiri, l'eco lontana del loro canto d'amore e di fede.