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dilaniare la carne dei suoi modelli per restituirceli nella loro anima.

Con l'avvento della fotografia un altro strumenti si aggiunse, un altro modo di definire le immagini si aprì. Ma forse pensando alla fotografia rispetto all'opera di un pittore si può essere ancora d'accordo con Giovanna Papini, che entusiasta del ritratto che nel 1913 gli aveva fatto Nunes Vais, scrisse: «Dicevano che la fotografia avrebbe ammazzato la pittura.

Invece la fotografia, diventando sempre più perfetta, sta salvando la pittura del momento che questa dev'essere sempre più la negazione di quella - cioè sempre più lontana e diversa dalla cosiddetta realtà che vedono tutti».

Matite, pennelli, creta, marmo, sono il diaframma che separano l'artista dal suo soggetto. Nella partita serrata che si gioca tra i due giocatori, nella sfida tra l'immagine e dietro l'immagine sono l'elemento che ancora alla realtà.

Gèleng studia chi gli è di fronte. A volte l'abito scelto, la posa che può ricordare i grandi ritrattisti del Seicento o alcune opere dei grandi pittori dell'Ottocento sono la sovrastruttura, quasi imposta da chi chiede il ritratto, e rivelano quale immagine il soggetto con il sorriso sulle labbra vuole lasciare di sé. Gèleng asseconda il sorriso che può rendere quasi effimera l'immagine. E quando il sorriso di un volto sembra padrone del quadro insorge il dubbio se è la persona dipinta a dominare l'opera oppure la verità della potenza dell'artista.

Ma come sempre bisogna osservare le cose con attenzione: una luce nello sguardo, una piega della bocca ci fanno capire che il gioco lo vince il pittore. Gèleng riesce sempre a svelare a chi guarda almeno qualcosa dell'identità interiore della persona dipinta sulla tela, qualcosa che doveva forse restare segreta.

 

(Eleonora Barbara Nomellini)

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Conosco Gèleng dal 1943 e sin da quel tempo ho compreso che avevo incontrato un grande Maestro del colore.

Sono sicuro che il tempo, che di solito cancella le orme dei mediocri, avrà per lui il potere di inserirlo tra i Grandi della sua epoca.

Per lui la pittura è facile come respirare l'aria delle strade della sua Roma. La sua mano è guidata da un ingegno formidabile. Egli ha creato dei capolavori destinati a rimanere per sempre testimonianza dell'arte che il nostro Ventesimo secolo vuole tramandare al Ventunesimo che stà per iniziare, come eredità di un'Arte che non finisce mai.

Gèleng ha popolato il suo studio di Via Capo le Case, nel cuore di Roma, di nudi, di paesaggi, di nature morte, di volti.

Gèleng è padrone della materia. La pittura a olio è la sua preferita. Se si osservano le opere nei particolari, nei suoi fiori riecheggia la tempesta delle pennellate di Kokoschka. Nei paesaggi la sapienza delle ombre rende segreto e manifesto nello stesso tempo un luogo che, anche se nostro percorso abituale, non siamo quasi più capaci di vedere.

Nature morte, paesaggi, nudi, dunque, ma da considerare soltanto come un frammento del suo mondo. Tutta la sua vita di artista è stata il proseguire ininterrotto dello studio dei volti.

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Ogni uomo sente l'ansia di conoscere se stesso. Tra i volti da indagare Gèleng ha messo sempre anche il suo. Lo specchio è certo il suo compagno più fedele. Specchio nel quale Gèleng non si riflette come Narciso, ma nel quale placa la sua ansia di conoscenza. I suoi autoritratti sono numerosissimi. Messi in fila potrebbero servire a fare la storia della sua anima. Triste, sereno, curioso, solo, con i suoi modelli, ripensando a Rembrant. Il suo volto dunque e tanti altri volti. È un desiderio insito nella natura umana voler lasciare con la propria immagine un ricordo di sé, sopravvivere a se stessi. Ogni epoca ha avuto artisti che si sono dedicati al ritratto e traccia dell'influsso della cultura e del gusto di ogni epoca si rivela nelle loro opere.

I ritratti romani sono l'esempio del passaggio alla rappresentanza di volti vivi, con i limiti della passione, non più immagine solenne e irrigidita della divinità e del potere.

I ritratti di Raffaello, di Tiziano, del Bronzino sono capolavori assoluti.

I naturalisti vollero mostrarci i loro contemporanei nel loro ambiente. Manet dipinge Zola tra i suoi scritti e le sue stampe giapponesi, Degas ci mostra i suoi modelli in azione, gli impressionisti fondono la figura con la natura, per i simbolisti il quadro non è che un pretesto decorativo per modulazioni cromatiche più vicino a noi, vediamo Lucien Freud

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