Homo Sapiens rivista di filosofia, arte e letteratura


Editoriale

 


È fuori da ogni prospettiva commemorativa o celebrativa, che la riflessione del presente numero sul tema del genocidio invita ad una complessiva rivisitazione di alcune categorie centrali del pensiero occidentale, nella sua ultima e articolata espressione, propria del secolo ventesimo. Non imprigionati dall'osservanza di alcuna ortodossia (e incuranti dei riti di iniziazione e di riconoscimento del funzionariato intellettuale) scagliamo contro la morte presente, figlia dell'Orrore che fu, l'ordine delle parole e le passioni nutrite da dubbi e indagini, di certezze e di rivolte morali.

Secondo questa ottica "soggettiva", si parte dal riconoscimento delle inevitabili responsabilità dell'"ideologia" totalitaria nazista nell'annientamento delle volontà individuali di milioni di uomini, espressioni di un dissenso impossibile, dentro a quel complessivo sistema organico e monolitico e al suo carattere assoluto, e, insieme, dal rifiuto sostanziale della retorica della unicità (reductio ad unum) dell'Olocausto, inteso quale momento irripetibile, e al contempo "inaccessibile", della drammatica parabola storica del secolo scorso. La centralità rituale di quell'evento, infatti, annullerebbe ogni possibile discorso, quasi anche "ogni possibile predicazione" e lascerebbe il campo (come è del resto già accaduto), a retoriche uguali e contrarie, finalizzate all'assimilazione dell'evento, alla negazione degli altri ad esso affini, e alla legittimazione di costruzioni ideologiche, che si rivelano mere speculazioni e strumentalizzazioni, destinate a perpetuare la prospettiva storico-economica del moderno assetto del dominio, fondamento ineludibile del rapporto 'paradossale' di continuità che unisce il presente con l'olocausto.

Il "massacro universale" si presenta, al contrario, in termini politici e antropologici, come il risultato necessario di un'incontenibile pulsione di piacere che nega le individualità, proprio perché le innalza a "prototipi", e supera il principio della "volontà generale", in nome di una imperativa volontà universale. La distruttività, &endash; violando i canoni freudiani &endash; è il suo carattere essenziale, l'elemento dinamico, quello che le dà la forza di "procedere". Si tratta di un "procedere" cieco e irrazionale, mosso da un istinto distruttivo continuamente "rimosso" nella sua reale natura, intransigente nelle sue richieste totalitarie, perché obbediente ad una logica superiore, a sua volta fondata sul rigore assolutistico della logica del capitale, dove anche la stessa presenza di valori nazionalistici viene superata dalla tensione "internazionalista" dell'assoluto imperialistico e il soggetto è risucchiato "inconsapevolmente" dalla sua appartenenza ad una fittizia "totalità".

Gli aberranti assunti etico-biologici delle differenze razziali diventano così strumenti utili al movimento distruttivo e alla sua volontà di "alienazione" dell'individuo e del gruppo. L'impossibilità, in tali condizioni bloccate, dell'emergenza di un internazionalismo dal basso, diverso ed opposto a quello del sistema totalitario, impone alla logica del dominio l'annullamento dei dissensi individuali e delle comunità o dei gruppi sociali titolari del carattere "internazionale", la cui sola esistenza può ledere in modo letale l'integrità del sistema e la sua feroce onnicomprensività.

Nell'ordine nazista l'individuo è preda dell'"ideologia" e delle sue menzogne, il gruppo è depauperato della propria natura dissenziente. In questa "desoggettivazione di pura potenza" la critica può individuare uno scorcio di "verità", quando, nel senso di abbandono e infelicità lasciato agli individui, riconosce "il rischio della ripetibilità" e la fragilità del sistema lacerato dalle proprie catastrofiche contraddizioni.

 

La storiografia è una disciplina scientifica, che avanza le sue esigenze e prescrive i suoi metodi, l'arte un'avventura dello spirito, una pratica nella quale si distrugge quel poco di 'normalità' che sopravvive al delirio.

In questa prospettiva di autoinganno l'arte può costituire l'elemento dirompente del dissenso, attraverso il rifiuto, come sostiene Fabio Mauri, della decodificazione dell'arroganza kitsch del potere, che vorrebbe "omologare" anche l'arte. Nella sua intervista Mauri ritorna spesso sul ruolo di denuncia che l'estetica riveste nei confronti di quella spaventosa "irriducibilità del fascismo" che ha imposto un tempo il suo Diktat. Auschwitz è paragonata ad un "moderno sistema di fabbrica" dove gli esseri umani rappresentano la materia prima di un processo produttivo seriale in cui il risultato finale è rappresentato dalla loro morte.

L'utilizzo della fotografia è una specie di rievocazione del rimosso, una sorta di riproposizione delle immagini prototipiche del potere e della repressione, e un tentativo di superare l'"ideologia", nella sua deteriore accezione, per tornare alla natura, con la sua "verità" di significato. Nelle immagini di Mauri si recupera proprio il senso ultimo dell'operazione decostruttiva delle certezze e degli autoinganni del sistema totalitario, così come egli stesso aveva inteso operare in "Che cosa è il fascismo". In questo percorso poi egli sembra affacciarsi sulla prospettiva originale e incisiva tracciata successivamente anche da Boltanski, nel suo condividere il senso "tragico" della fotografia, sottolineandone quell'originario carattere teatrale, e volendo così "omaggiare" l'intelligente intuizione di R. Barthes.

Un raccordo possibile tra itinerario storico e immagine individuale, tra proposta psicologica e sfida dialettica è rinvenibile solo nelle origini fondative degli sviluppi del Moderno, dove la manifesta contraddizione tra questi opposti si mostra nella sua sostanza, nella complessità delle istanze politico-psicologiche messe in campo dai criteri esegetici indispensabili alla lettura del moderno. Questo ambizioso e complesso orizzonte è forse il luogo più proprio del nostro esperimento, quasi un 'luogo naturale', dal quale rispondere alle richieste urgenti del nostro tempo.

Il Moderno, infatti, non fa problema di se stesso se non dal punto di vista dei suoi critici, che scommettono sull'insussistenza, almeno in termini di legittimità, del dominio, e sulla vigenza della razionalità critica, non-contemplativa, fuori dei feticci del mercato, delle fantasmagorie di rappresentazioni illusorie e dalle mistificazioni del pensiero "normale", liberi dai vincoli del suo apparato assiologico, troppo spesso svelatosi un nido di menzogne o di razionalizzazioni "ideologiche" della configurazione presente del mondo. I critici del moderno, così come sono insofferenti verso il "dato" positivizzato, rifiutano le rassicurazioni e le pillole soporifere che filtrano i massacri della storia, giustificando i misfatti della politica e i crimini del dominio reale con gli occhiali della "buona coscienza", e pongono la domanda cruciale intorno a quella che, senza moralismi e fondamentalismi, si potrebbe chiamare violazione dell'essenza umana (che è sopra ogni altra cosa una violazione del suo "progetto"), intorno alla violenza terribile che denuncia la storia come massacro e, al tempo stesso, annuncia, interrogandosi sull'essere possibile dell'uomo con gli strumenti della parola poetica e le 'alchimie' del concetto filosofico, la storia come emancipazione e verità.

L'Olocausto ci si presenta così non come una contingenza storica qualsiasi, ma un evento che segna, non soltanto simbolicamente ma in senso forte secondo la coppia apocalissi-utopia, i tempi successivi, continua a riempirli di contenuto, così come fa per quelli che lo precedono. Un evento che genera "tempi", ma non manifesta in ultima istanza che la ripetizione del Moderno, la vigenza della sua ferocia e la trascendenza della sua violenza, assurta a norma della socialità 'normale'.

Il senso complessivo del Moderno muta dunque il suo aspetto a motivo dell'Olocausto o meglio svela il suo nocciolo, rivestito di una scorza fatta di "fede" e di "progresso", di "tecnica" e di ricchezza "mercantile".

Molte categorie, costitutive del Moderno, ne risultato distrutte, sfigurate, irriconoscibili. Il pathos della ragione, che ci ha sostenuto per millenni, silenziato, interrotto, spezzato.

Si aprono, a partire da ciò, due percorsi possibili o ipotesi di ricerca:

a) la disciplina storica si riappropria della "verità" che, esposta agli occhi di tutti, diventa messaggio eloquente e "discorso edificante".

b) la ragione, che esercita il giudizio critico sul materiale storico, non lo risparmia alla forma della sua legittimazione operativa e scopre, fatalmente, di essere contaminata da quella "contingenza" in modo universale e irreversibile, consumando là la sua "crisi", nell'esercizio stesso della critica scientifica, sia pure modulata secondo criteri "genealogici".

Lo smascheramento della macchinazione all'opera e la liquidazione del campo di ambiguità non si accontentano dell'uso rigoroso delle buone regole della filologia (a) ma si interrogano (b) attraverso l'autocritica della ragione, sul senso ("complessivo" per chi fa storia "a contrappelo") politico e metapolitico (cioè, in definitiva antropologico-filosofico) dell'evento-Olocausto e della catena di effetti, non ancora esaurita, che esso trascina con sé. La ricerca si inoltra, per tale ingresso, nei territori dell'arte e della purezza dell'immagine-parola, attraversati i territori maleodoranti del massacro e dell'infamia, dove al disordine morale si accoppiano il mercato politico e le voci menzognere della falsa coscienza, giustificatrici o consolatrici, ma vòlte a tutto dimenticare per nascondere il colpevole in casa loro (da cui forse un giorno partì) o a tutto ricordare per annegare il profilo dell'evento nel fiume (sacrosanto ma cieco) della pietà, della commiserazione, del pathos del cuore, che paralizza la ragione attiva.

L'Olocausto impone così scelte di campo e dispone all'interrogativo cruciale, sorretti dalla certezza dell'evento e dalla sua posizione condizionante rispetto agli altri eventi ad esso assimilabili o vicini, cosi come ai difformi e lontani: interrogativo che chiede una possibile via d'uscita da un presente che, gravido di promesse, replica se stesso nello stato di vergognosa, perentoria, sterilità della sua presenza fattuale.

Dopo l'Olocausto, sconfessato dalle ultime guerre imperiali prima ancora che dai negazionisti e revisionisti della "nuova destra", la sortita dal presente sembra essersi eclissata nell'inganno di un presente alienato, di un presente di desolazione figlio di "tempi" che il massacro organizzato perpetrato dai nazisti inaugurò.

L'esito della questione (b), come si vede non puramente formale-metodologica, appare indecidibile anche consumando il massimo della certezza filologica e del sapere storiografico. La ripulsa morale e il giudizio politico sul crimine nazifascista, che concludono l'indagine storico-critica, sono disarmati come la parola di un profeta minore, solo apparentemente ascoltato dalla folla, ma senza reale influenza su di essa.

La denuncia della ragione approda ai territori della partecipazione, dell'emozione estetica, si affida alla parola e all'immagine poetica, all'eco e alla risonanza "forte" della testimonianza. In questo deserto ci si scopre fratelli delle vittime della ferocia nazifascista, degli inganni e dei tranelli dei potenti che tacquero, finsero di non sapere, scelsero la compromissione segreta, tradirono la memoria o la trasformarono in icona liturgica.

Ma è soltanto liberandosi dalla tirannide del "dato" e dalla stretta di una presenzialità coatta che risulta possibile oggi avviare un "discorso vero" sull'Olocausto.

L'incompiutezza del presente rispetto alla lezione che l'Olocausto suggerisce, diversa da ogni celebrazione rituale, si presenta cosi come insufficienza e dominio di una "continuità storica reificata" (W. Benjamin) da spezzare, proprio come il filo da tagliare prima che la scintilla arrivi alla dinamite.

La "sola catastrofe" che accumula rovine su rovine è il "dato" rispetto al quale si tratta di serbare uno sguardo distaccato ma anche intriso di orrore, nell'individuazione dell'origine &endash; la cultura occidentale &endash; delle rovine che salgono sino al cielo. Rovine che si ergono ancora sopra quelli che giacciono a terra e impongono di "passare a contrappelo" la storia e scovarvi il non attuato, il mancante, con la forza dell'attesa e l'esercizio della critica.

© 2001, Teseo Editore, Roma



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