testata il Sole 24 Ore

L'Italia Cenerentola al ballo del mattone


di Luca Vinciguerra

MILANO - Italia Cenerentola. Anche al ballo del mattone. La bolla speculativa che a cavallo tra gli anni 80 e 90 aveva fatto venire la febbre alta ai mercati immobiliari di mezzo mondo si è esaurita da tempo un po' ovunque. Ma il nostro Paese, con il Giappone, resta uno dei pochi nel novero delle grandi potenze economiche occidentali a leccarsi ancora le ferite. Mentre Gran Bretagna e Stati Uniti, che a metà degli anni 80 parteciparono senza risparmiarsi alla grande sbornia del mattone, I'anno scorso hanno cominciato a raccogliere i primi frutti delle contromisure varate a suo tempo, I'ltalia non riesce ancora a trovare il bandolo della matassa. Rischiando così, sostengono molti esperti, di lasciare il mercato immobiliare ingessato fino al nuovo millennio.
A pagare il conto più salato, oltre naturalmente a coloro che qualche anno fa comprarono casa a prezzi da capogiro rispetto agli attuali, sono le banche. Vuoi perché si ritrovano oggi iscritti in bilancio una montagna di mattoni deprezzati dal mercato, vuoi perché sono stati proprio loro a fare da paracadute ai crack di molti gruppi che non avevano saputo resistere alla tentazione di scommettere pesante sulla casa, gli istituti di credito italiani sono a tutt'oggi prigionieri della crisi immobiliare. E sembra proprio che non sappiano come uscirne.
Ma i veri prigionieri sono soprattutto i bilanci che, a fine '96, evidenziavano circa 20mila miliardi di sofferenze di natura immobiliare: in pratica, oltre il 15% degli impieghi in questo settore sono da considerarsi insoluti ufficiali, mentre il 17% del monte sofferenze del sistema creditizio nazionale è composto da incagli nel mattone. E il pedaggio, alla fine, lo hanno pagato i profitti il cui andamento verso il basso ha seguito fedelmente il trend ascendente delle sofferenze bancarie. Le quali, ovviamente, per molti versi non hanno nulla a che vedere con la crisi del mattone.
Perché all'estero sono riusciti a uscire finalmente dalle sabbie mobili? La prima risposta è forse la più semplice: perché in Paesi come l'Inghilterra e gli Stati Uniti la bolla speculativa si è gonfiata prima ma si è anche sgonfiata prima. Basti pensare che nei Paesi anglosassoni i picchi più elevati dei corsi degli immobili sono stati toccati nel biennio 198889, mentre in Italia sono stati raggiunti quasi tre anni dopo.
La seconda, oltre a essere più articolata, dovrebbe indurre anche a qualche riflessione: perché la casa, anziché entrare nel mirino del fisco, ne è progressivamente uscita; perché il sistema ha trovato rapidamente i suoi anticorpi alla grande crisi dando nuova linfa vitale (è il caso degli Stati Uniti) ai Real Estate Investment Trust, i grandi fondi di investimento immobiliare che nell'ultimo biennio sono sbarcati in massa in Borsa; perché, last but not least, livelli più contenuti di inflazione hanno garantito in questi anni tassi di interesse più bassi che, tramite il volano dei mutui a buon mercato (sui quali le building society britanniche si sono fatte la guerra), hanno stimolato notevolmente l'acquisto di nuove case.
In Italia non è ancora accaduto nulla del genere. E soprattutto non sono stati ancora varati, a dispetto delle attese e delle promesse, i tanto auspicati fondi immobiliari.
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Negli USA il rilancio passa dai trust


di Stefania Pensabene

NEW YORK - Nel "circolo della vita" dell'economia americana, è stato in questi anni il mattone, forse più di altri a diventare il simbolo delle profonde oscillazioni che segnano le fasi di sviluppo del più grande mercato del mondo. Non a caso, dopo la profonda crisi a cavallo dei primi anni '90 e un'operazione di salvataggio delle casse di risparmio esposte nel settore immobiliare costata oltre 250 miliardi di dollari ai contribuenti americani, il mattone è oggi tornato a tirare negli Stati Uniti.
Aiutati da una struttura di gestione più snella, da una situazione favorevole dei tassi di interesse e da un'economia in ottima salute, i valori delle proprietà immobiliari stanno rapidamente riprendendo quota pur restando ancora lontani dei massimi della seconda metà degli anni '80. I segnali di conferma sono numerosi: dalle cifre astronomiche degli affitti in mercati "caldi" come quello di New York, tra i più colpiti negli anni della crisi, al crollo verticale nelle percentuali di immobili sfitti.
Ma soprattutto le maxi-operazioni condotte dai grandi protagonisti del "real estate" rappresentano un importante sintomo della ripresa del settore: quest'anno si è consumato ad esempio il matrimonio tra la Simon Property Group e il De Bartolo Realty Group, i due giganti degli immobili nel comparto dei grandi centri commerciali. E questa fusione ha contribuito ad attirare ancora di più sugli immobili l'attenzione di grandi investitori istituzionali come Calpers ed il finanziare George Soros. Per di più, i prezzi di edifici residenziali e commerciali sono in rialzo, confermando una forte competizione tra gli acquirenti. Anche la crescente pressione di Washington perché banche e compagnie assicurative, proprietarie di grandi portafogli immobiliari, mettessero sul mercato le loro proprietà in sofferenza si è allentata a mano a mano che una serie di cancellazioni contabili le ha riportate ai valori di mercato.
A dare maggiore solidità alla ripresa del mattone è oggi un fenomeno relativamente nuovo: nel settore degli edifici commerciali, mercato che vale oltre 3mila miliardi di dollari, le grandi famiglie americane che hanno fino a poco tempo fa dominato la scena stanno cedendo velocemente il passo alla proprietà diffusa. Le cifre parlano chiaro: solo tra il 1993 e il 1994 più di 75 Reit (Real Estate Investment Trust, i grandi fondi di investimento immobiliare che controllano buona parte delle proprietà esistenti) hanno avviato il collocamento dei propri patrimoni nelle varie Borse degli Stati Uniti. Nello stesso periodo, le società "mammuth" che hanno portato a Wall Street palazzi residenziali e proprietà commerciali hanno raccolto più di 40 miliardi di dollari (15 nel 1993 e 25 nel 1994), una cifra superiore a quella dei sette anni precedenti messi insieme.
A questo si sono aggiunti altri 40 miliardi di raccolta solo nel 1995, definito da diversi esperti del mercato borsistico come "I'anno dei Reit" in base ai rendimenti ben supenori alla media delle azioni delle società immobiliari: mentre l'indice allargato di Wall Street, lo Standard & Poor's 500 ha segnato una crescita del i,l%, le quotazioni dei Reit sono balzate del 12,7 per cento. La performance dei Reit sembra dunque destinata a soddisfare anche gli investitori più esigenti.
La capitalizzazione di mercato dei 201 fondi di investimento immobiliare quotati è oggi di 79,9 miliardi di dollari, con un ritorno medio nel 1996 (dati al 20 novembre) del 23,45% e del 30,23% negli ultirni 12 mesi. Un andamento estremamente positivo, che rispecchia la ripresa nel valore delle attività sottostanti e fa ben sperare per il futuro. "Il real-estate, soprattutto quello commerciale, è ancora lontano una decina di anni dal ritorno in piena salute - spiega Mark Decker, presidente dell'associazione di settore National Association of Real Estate Investment Trust (Nareit) -. Questo lascia spazio ad ampi margini di crescita: nei prossimi 10 anni prevediamo che la capitalizzazione di mercato dei fondi immobiliari salirà a 500 miliardi di dollari e che i Reit controlleranno 700-800 miliardi di dollari del totale delle attività immobiliari esistenti".
Previsioni sostanzialmente confermate anche da analisti di settore come Jay Willoughby della Aldrich, Eastman & Waltch. Queste stime appaiono tanto più strabilianti se si pensa che, solamente tre anni fa, una ritrovata salute del mercato immobiliare nord americano appariva come un miraggio lontano.
Per gli operatori del "realestate", il 1993 era stato segnato indelebilmente dal crack della canadese Olympia & York, il più grande impero immobiliare privato del mondo controllato dalla potentissima famiglia Reichmann. Ultimo baluardo delle grandi speculazioni degli anni '80, la Olympia & York era infine caduta sotto il peso di 20 miliardi di dollari di debiti, finendo col passare in mano ai creditori. Il suo crollo si era abbattuto come un nuovo presagio di sventura su un mercato che proprio allora sembrava cominciare a riprendersi dalla crisi, dopo una "fase acuta" durata più di quattro anni.
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